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Vite in eredità: i fili di Magda Szabó.


Quando penso a Magda Szabó, quando penso alle sue storie, non posso fare a meno di immaginare le sue famiglie. I tantissimi nuclei familiari che abitano i suoi libri, una lunghissima successione di volti animati da sorrisi e lacrime, da gioie e paure, da quel senso tanto umano che ha fatto della Szabó una delle autrici europee più importanti dello scorso secolo.

Penso sempre anche a tutti i temi che le sue eroine riescono ad abbracciare, così come alla complessità dei volti maschili di quelle famiglie che provengono da un tempo lontano in cui ha sempre dominato la morte.

Nel farlo immagino sempre l’Ungheria, i suoi colori forti e al tempo stesso sbiaditi dalla storia, cercando in qualche modo di trovare connessioni tra quelle esistenze.

In occasione dell’uscita de La notte dell’uccisione del maiale e della lettura del saggio Scrittore e modello, un articolo pubblicato nel 1972 per la rivista Kortárs (Contemporaneo) che arricchisce questa nuova riedizione, ho cercato più volte di sbrogliare e dare il giusto peso a questa matassa brulicante di storie.

Mi sono arreso solo quando la stessa Magda mi ha spinto verso la risoluzione del mio enigma.

Esistono motivazioni e connessioni che solamente lo scrittore sa e può sapere”.

Cercavo le connessioni è vero, ma soprattutto le motivazioni che spingessero -di libro in libro- questa autrice verso alcune parole chiave: morte, eredità e tempo.

Quando venne pubblicato il mio volume di racconti La fuga dei dormienti, un giovane recensore ne appurò allarmato la natura morbosa, e per poco non disse che alla fin fine dubitava della mia salute mentale, a tal punto ero necrofila. (…) finalmente in qualche modo lo posso dichiarare: sono necrofoba, non necrofila. Se il giovane recensore avesse vissuto per decenni l’esperienza di tremare per i suoi cari in lotta con le malattie, con la morte, di mentire ai morenti, di far inghiottire a suon di suppliche del cibo a chi ormai appartiene più ai morti che ai vivi, di imboccare vecchi con un cucchiaino da caffè come dei neonati, di star dietro a cosi tante bare, di liquidare, eliminare dopo le varie morti non una, ma tre case, come e successo a me, non sarebbe più stato per lui un mistero cosi insolubile perché a me, invece di una realtà allegra, bella e foriera di risultati eccezionali, venisse in mente quasi sempre la morte”.

Anche tra le pagine de La notte dell’uccisione del maiale non manca la morte e, se ci pensiamo, anche nelle nostre vite la sua presenza è consolidata essendo tutti costantemente costretti a far i conti con le assenze, le stesse che rapportiamo a un tempo camaleontico. Dobbiamo accettarle, conviverci, dimenticarle, addirittura occultarle per renderci conto il più presto possibile che la vita passa, che siamo mortali.

Per quale motivo avrei dovuto concepire un volume di novelle più allegro? Perché mai? Insomma, quali erano le mie esperienze? La morte era continuamente là a girellare attorno a noi, e uno per uno tolse le persone a me più care. Ero impotente sia io, sia il mio affetto. Se non avessi provato cosi tanto orrore per la morte, se fin dall'infanzia non l’avessi percepita come nemica che mi derubava e uno dopo l’altro mi portava via genitori e amici”.

Non è però il buio a nascondersi dietro le parole della Szabó, non è una visione pessimistica, un labirinto di disperazione senza vie d’uscita. La vita per esser tale deve pulsare, come il cuore nei momenti di forte emozione, seguendo un ritmo rassicurante, luminoso. Basti pensare a uno spiraglio di luce capace di riportarci ai nostri ricordi più lontani.

Io stessa una volta avevo pianto le lacrime di Anti, e il porcile di Pólika ne La notte dell’uccisione del maiale stava sotto la finestra della cucina di Pelikán”.

La zia Pelikán è stata una delle figure di frattura per la Szabó, dopo la sua morte divenne il tramite per arrivare ad affrontare, con le armi della scrittura, alcuni dei grandi temi di quel grande percorso chiamato vita.

Ecco come le connessioni tra il vissuto e le narrazioni si sfumano, nascondendo l’esperienza di una prima persona capace di riformulare tutto di volta in volta attraverso storie diverse, forme diverse e modi di narrare sempre innovativi.

Anche noi potremmo percepire a un funerale -per la prima volta- di come i morti abbiano una vita postuma e come questa si possa affiancare alla nostra. Non sempre con un accezione negativa, non sempre come un peso, non così quando si trova il coraggio di osservare tutti i vivi tradire sé stessi nel momento del trapasso.

È una sensazione strana, fastidiosa, per molti inconcepibile. Come se “la polvere di Debrecen mi scricchiolasse tra i denti”.

Non ci vuole molto ad uscire da Budapest verso i luoghi dell’infanzia, Debrecen per l’appunto, una di quelle terre rurali fatte di gerarchie familiari ben precise.

Nella nostra famiglia non ebbe mai fortuna la leggenda per cui l’uomo è forte e la donna debole”.

E quasi come se la madonna fosse maschio, “sentivo che una donna doveva sempre garantire qualcosa: l’equilibrio della casa e il benessere e lo star bene dei bambini, e che solo un uomo aveva modo e tempo di essere tenero, buono e sentimentale. L’uomo è un cavaliere, generoso e magnanimo, ma a causa di ciò ci scapita sempre la sua famiglia; mentre lui coltiva le sue quotidiane chimere donchisciottesche, la povera moglie può ripulire alle sue spalle l’universo mondo, nel quale egli vaga con il suo spirito malinconico".

Magda Szabó ribalta sullo scacchiere dell’Ungheria le posizioni canoniche, semplicemente osservando con onestà una realtà di cui era protagonista, senza dover per forza appellarci all'etichetta femminista la quale sarebbe ancora lontana per poter essere definita, quanto dando risalto a uno sguardo estremamente femminile e autorevole.

Nel 1960 La notte dell’uccisione del maiale non venne neanche capito, lo si attaccò sia come romanzo che come dramma, rimanendo ancorati a una lettura che mostrasse il teatro semplice delle comunità del paesino di provincia e delle sue dinamiche.

Non è la descrizione della nobiltà e delle famiglie della provincia (…) è un requiem per la fanciullezza assassinata di mia madre, dalla rabbia e dalla disperazione che in me, sin da quando ero piccolissima, si risvegliavano ogni volta che mia mamma parlava della sua infanzia, dei suoi anni giovanili e della sua famiglia. (…) Ne La notte dell’uccisione del maiale volevo strillare al posto suo. Quando lei lo lesse, non provò soddisfazione, piuttosto inorridì nel captare attraverso il libro i suoi primi anni, la sua tremenda solitudine”.

Ed è qui, per l’ennesima volta, che un dolore privato assume i contorni della forma universale, così come la voce di Magda è sempre riuscita a fare. Il piccolo contesto rurale si fa apparentemente teatro per chi lo abita ma è teatro universale dei sentimenti umani, e al tempo stesso –sorprendentemente- contemporanei.

Nel muovere quei fili luminosi tanta era la cura nel rispettare storie non mie che se pur di finzione trasudano di veridicità, tanto la voglia di catalogarle, metterle una vicino all'altra per capire i meccanismi del mondo, le meccaniche dei sentimenti.

Dove vivevo io c’erano esseri che nella loro vita amavano solo una volta e una sola persona, e c’erano passioni, guerre familiari, rancori, ostilità, a cui solo la morte metteva fine, e talvolta nemmeno quella, perché si lasciavano in eredità”.

La notte dell’uccisione del maiale diventa l’ennesimo tassello fondamentale di una produzione sconfinata e unita da quelli che pensavo fossero fili ma che così non sono.

Non era possibile sbrogliare una matassa fatta di tombe sotterrate nella storia, di ricordi persi nella memoria, di echi che hanno fatto la casa nei nostri cuori. Alla fine mi sono interrogato su questa eredità chiedendomi se fosse poi vero che i morti muoiano, così come anche la Szabó avrà più volte fatto.

In ciò che è rimasto di quel cimitero, un palmo di arruffato disordine, non ci sarà un angelo della resurrezione capace ancora di orientarsi tra le tombe sprofondate, dietro alle quali ormai si stagliano i piccoli grattacieli”.

Ma i morti non muoio, non lo fanno e a noi non ci rimangono altro che le urla filtrate da un atavico sguardo luminoso.

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