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«Cari ministri, quel premio tenetevelo pure»

Aggiornamento: 5 dic 2023

Ecco la lettera che Imre Oravecz inviò al Consiglio dei Ministri ungherese nell’aprile 1989 per rifiutare il Premio Attila József. Pubblicata in italiano su Il Giornale del 15 settembre 2019 nella traduzione di Mónika Szilágyi.



di Imre Oravecz



Da quando esiste la letteratura esistono anche i premi letterari. Ci sono premi prestigiosi e ci sono quelli poco importanti. Ci sono quelli che sono un onore per lo scrittore e altri che sono onorati se lo scrittore li accetta. Così è il mondo, questo è il suo ordine. Tuttavia, lo scrittore non scrive perché aspira a un premio. Inoltre, forse uno scrittore si può considerare davvero tale solo quando non aspira più a nulla. Né ai premi, né ad altro. Certo, gli piace l’alloro perché anche lui è un essere umano. Ci vede il riconoscimento e l’apprezzamento del suo lavoro. E con i soldi che gli mettono nella mano, può comprare qualcosa. Carta, cibo, vestiti per sé e per la sua famiglia. Può invitare a cena i suoi amici, cambiare macchina da scrivere o persino tinteggiare se non l’appartamento, almeno lo studio. Supponendo che abbia uno studio e la notte non si debba curvare sul tavolo della cucina.

Cioè fa quello che tutti farebbero al posto suo. Perlomeno in circostanze normali. Io stesso ho immaginato così la cosa fino alla fine degli anni ’60, quando desideravo ancora il Vostro premio. Quando credevo che almeno nella letteratura le condizioni fossero normali. Quando cercavo in me l’errore e mi incolpavo per non aver ottenuto l’ammissione. Ma quando avevo capito come stavano le cose, che la mia colpa era soltanto di scrivere poesie di un altro genere rispetto a quello che Voi avreste voluto leggere, ad un tratto l’idea ingenua era crollata. Da quel momento in poi, avrei voluto al massimo ottenere il Vostro riconoscimento per rifiutarlo e ribattere. Per far sapere al mondo intero che non lo volevo, che mi rifiutavo, che non avevamo mai mangiato nello stesso piatto. Ammetto, quel comportamento sorgeva dal risentimento ed era per lo meno tanto infantile quanto la precedente percezione della situazione. Ma forse è perdonabile perché allora ero giovane e inesperto. Avevo bisogno di qualcosa con cui trastullarmi, con cui tenere l’anima in me. Avevo bisogno di quell’assurda eventualità dato che non avevo nient’altro. Neanche un lavoro, non una cattedra, poiché avete provveduto che io non potessi insegnare, che non potessi ottenere un lavoro adatto alla mia istruzione e alle mie capacità.

Poi ho lasciato perdere anche quello. Perché dopo un po’ non mi dava più soddisfazione vera. Anzi, aveva un effetto paralizzante su di me. Ero disperato ma non cieco. Vedevo che cosa stava succedendo intorno a me. I migliori della mia generazione si sono ammutoliti, sono espatriati o sono morti. Ma a quelli che sono rimasti e sopportavano, prima o poi cadeva dalla tavola qualche osso. E sempre più il sospetto si è impadronito di me: una volta, un giorno, in un tempo lontano, gli occhi si sarebbero incrociati in uno sguardo d’intesa in un ufficio, la decisione sarebbe stata presa e avrei ottenuto anch’io qualcosa. Se lo volevo o no. Dovevo solo aspettare. Perché una volta a ciascuno verrà il suo turno e prima o poi tutti ottengono qualcosa in un mondo in cui non esiste un sistema di valori naturali e, a seconda degli attuali interessi politici, il potere statale decide anche su che cosa è l’arte e chi è un artista. Solo che per allora io non sarei stato più lo stesso. Forse sarei stato spezzato, stanco e indifferente. E non l’avrei restituito. Non avrei fatto resistenza, non mi sarei difeso. Avrei lasciato che mi perdonassero l’avermi sgambettato, messo da parte, perseguitato. Avrei lasciato che la mano che fino a quel momento l’aveva colpito solo con pugni, mi accarezzasse il viso. 

Ed ecco, ora, molti anni dopo, quando sono più vicino ai cinquanta che ai quaranta e le mie opere, sebbene non senza eccezione, e non come vorrei, ma vengono pubblicate, devo affermare che il mio sospetto non era infondato. Quello che prima desideravo molto, e dopo affatto, il 4 aprile si era realizzato. Come ho appreso dal Vostro comunicato stampa, tra i vincitori del Premio Attila József di quest’anno c’è anche il mio nome. È arrivato dunque il mio turno secondo la vecchia ricetta. È successo di nuovo come di solito succede da quelle parti. I tempi promettenti del cambiamento non hanno ancora intaccato questa pratica ignobile. Fortunatamente, tuttavia, le mie paure non si sono avverate. Sebbene la mia salute sia già traballante, il mio senso morale è ancora intatto e mi impedisce di entrare in questo gioco. Pertanto, Vi informo che non accetto il Premio Attila József. Vi chiedo di annullare la decisione dell’organismo competente e di informare il pubblico e le istituzioni pertinenti della mia azione. Per lo stesso motivo non pretendo la somma di denaro per il premio, ma Vi metto in guardia dall’utilizzarla per supportare l’editoria statale. Onde evitare che mi ricapitasse quello che era capitato nel caso della raccolta di poesia Settembre 1972 che è nella motivazione del premio. Vale a dire, avevo ricevuto un supplemento di royalties mascherato da premio, come risarcimento del numero di copie tenuto ridicolmente basso per una sorta di deselezione naturale, e potrebbe facilmente succedere che la somma arrivi a me, e non lo voglio. 

Sarebbe bello chiudere le mie righe dicendo che sono felice perché il peggio non è arrivato. E che mi sono preso una rivincita. Qualcosa di simile avevo sperato nella mia impotenza quando non avevo la minima possibilità di farVi saltare la mosca al naso. Ma non lo sento. È vero, nemmeno indignazione o rabbia. Semplicemente sono soltanto triste perché Voi mi ricordate la mia vita che è già oltre il suo apogeo. Gli anni della mia vita in cui ero ancora nel pieno delle mie forze creative e forse avrei potuto scrivere tutto ciò che non potrò mai più scrivere. Berlino Ovest, aprile 1989 I migliori saluti,


Imre Oravecz

scrittore


(Traduzione di Mónika Szilágyi)




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