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Traduzione e dintorni

Aggiornamento: 2 giu 2020

Uno spazio per dare voce al prezioso lavoro dei traduttori.



Intervista a Vera Gheno



  • Partiamo dalle basi: che cosa vuol dire tradurre un testo?


Per me, vuol dire trasferirlo in un’altra lingua assieme al suo contesto sociale, culturale, storico. Tradurre è molto più che un’attività meramente linguistica. Per questo, non basta, secondo me, conoscere bene le due lingue; occorre, ove possibile, averle anche “vissute”. E in tutto questo, la tua mano, la mano del traduttore, deve essere più lieve possibile, in modo da non deformare troppo il testo di partenza.


  • Qual è la qualità – se ne esiste una – più importante per un traduttore?


Non lo so davvero. A parte conoscere bene la lingua di partenza e quella di arrivo, intendo dire! Forse, la pazienza, l’indefessa ricerca della “scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze”, come diceva Italo Calvino. L’umiltà di ricordarsi di non saperne mai abbastanza. La capacità di reggere lo stress e la fatica.


  • Quando possibile, che tipo di legame crei con gli autori che traduci?


Francamente, da questo punto di vista sono un po’ un’orsa. Mi capita soprattutto di tradurre autori del passato, anche recente, ma comunque non viventi. Purtroppo non posso interpellarli. Ho comunque sempre molto pudore a contattarli, anche quando sono miei contemporanei. Cerco di entrare nel testo in altri modi, per esempio leggendo le traduzioni in altre lingue del testo che devo affrontare. Ma magari con qualcuno dei prossimi testi mi capiterà di avere più bisogno degli autori, chissà.


  • Essere traduttrice ha influito su di te come lettrice?


Forse mi ha resa ancora più sensibile nei confronti delle cattive traduzioni, delle traduzioni che tradiscono il testo. Quando leggo un testo in traduzione, mi faccio sempre un mare di domande sulla qualità del lavoro svolto. Soprattutto quando leggo testi in lingue minori, mi assale la curiosità di capire se il traduttore è stato o meno fedele. Questo perché ho visto tanti testi scritti nelle lingue che conosco non tanto tradotti, quanto piuttosto parafrasati a beneficio del “palato italico”.


  • Spesso si dice che il traduttore è l’autore di quel testo in un’altra lingua; è un’affermazione carica di significato. Tu cosa ne pensi, in quanto traduttrice?


Diciamo che è sicuramente un complice dell’autore originario. Non mi spingerei a pensarlo come un autore quasi a sé stante, ma certo è che soprattutto nel caso di traduttori privi di scrupoli la distanza tra opera tradotta e originale può essere davvero notevole. Diciamo che il traduttore è un coautore, e come tale sarebbe anche giusto metterlo sempre in evidenza. E invece spesso si parla di un’opera in traduzione come se si fosse autotradotta, senza minimamente calcolare il lavoro del traduttore.


  • Secondo te, il ruolo del traduttore vive la giusta considerazione nel mondo editoriale?


A parte alcune tradu-star, direi proprio di no. Direi che l’etica della traduzione sia ancora abbastanza poco diffusa nel mondo editoriale, e che si punti di più al contenimento dei costi e a lavori eseguiti velocemente piuttosto che alla qualità della traduzione. Penso che questo sia molto dannoso, soprattutto nel caso di traduzioni da lingue “minori”, perché si rischia di deformare completamente la letteratura di una certa lingua senza che nessuno, di fatto, possa rendersene conto.


  • Quanto è cambiato – se è cambiato – il lavoro del traduttore nel corso degli anni?


Per quanto mi riguarda, Internet ha cambiato tantissimo il mio modo di lavorare, dato che non solo mi ha dato accesso ai dizionari online, ma mi fornisce anche molti testi di contorno dai quali prendere spunto o nei quali, talvolta, trovare risposte che il dizionario non riesce a dare. Oltretutto, è facile anche mantenere i contatti con altri traduttori per scambiarsi opinioni e pareri. Nel mio caso, sono soprattutto traduttrici: quella che io scherzosamente chiamo “la mia pussy posse” è composta da Laura Sgarioto, Alexandra Foresto, Mariarosaria Sciglitano e Cinzia Franchi.


  • A tuo parere, la traduzione muta il destino di un libro?


Sicuramente sì. A essere onesta, non sempre come ce l’aspettiamo. Ho letto traduzioni “traditrici” che però hanno contribuito a creare dei bestseller, ma soprattutto traduzioni brutte che hanno stroncato ogni possibile carriera di un testo che magari in originale era bellissimo. Ovviamente, chi legge in una certa lingua si basa sulla traduzione, mica ha sempre contezza di come fosse il libro originariamente...


  • E siccome sei anche linguista, puoi dirci qualcosa su “lo stato della lingua”, oggi, in campo letterario?


Forse essere linguista è una dannazione, da questo punto di vista! Comunque, a parte le battute, penso che spesso si sottovaluti l’importanza di conoscere bene anche la lingua di arrivo, oltre che quella di partenza, di una traduzione. Trovo singolare che si facciano errori di traduzione che non riguardano la comprensione del testo, ma la sua resa in italiano. Diciamo che la correttezza formale oggi è da molti considerata meno rilevante di altri aspetti. Chiaramente non sono d’accordo, su questo.


  • In vista della prossima uscita Edizioni Anfora che hai tradotto, Lolò, il principe delle fate di Magda Szabó, puoi dirci se è stato diverso tradurre una fiaba rispetto alle altre traduzioni di Magda (ricordiamo Il momento (Creusade), Affresco, Abigail, Per Elisa) che hai fatto? Ti è piaciuto/ti sei divertita?


Lolò ha una storia strana: è stato uno dei primi libri che ho tradotto, molti anni fa, e che adesso ho rivisto e ritradotto, con l’ausilio di acuti collaboratori di Anfora, in alcune sue parti. Certo, tradurre una fiaba è un’esperienza unica, perché occorre stare ancora più attenti agli “utenti finali” del lavoro di traduzione. Mi sono divertita molto ed è stata una bella sfida (anche riprendere in mano una vecchia traduzione, tra mille paure e imbarazzi: non amo mai “rileggermi”). Soprattutto, mi sono immensamente divertita a tradurre nomi parlanti e filastrocche. E diciamocelo: ho anche fatto una bella sudata per riuscirci!




  • Puoi raccontarci di una parola ungherese davvero intraducibile (o quasi) in italiano?


L’ungherese è una lingua agglutinante. Questo significa che spesso crea parole semplicemente accostandone vari tra di loro. Di conseguenza, ci sono moltissimi termini dell’ungherese che non hanno un traducente unico, ma necessitano di più parole per essere tradotte: per tutti questi casi si potrebbe parlare di parziale intraducibilità. Per il resto, direi che uno degli aspetti più difficili da tradurre, ma non solo dall’ungherese, sono le pietanze tipiche: i nostri mitici piatti, al di là di quelli scontati, come fai a “renderli” in traduzione? Faccio un esempio: in Ungheria tipicamente si prepara, con un sacco di legumi o verdure, il főzelék. Non è una zuppa, non è un minestrone, non è un purè: è una sorta di porridge con dentro i pezzi di una certa (e normalmente una sola) verdura: főzelék di zucca, főzelék di fagiolini, főzelék di patate, főzelék di lenticchie... all’aspetto, è una sorta di base cremosa, da mangiare al cucchiaio, ma più spessa di una minestra e anche di una vellutata, con dentro il legume o la verdura protagonisti del piatto. Insomma, ecco, davanti al főzelék io, da traduttrice, capitolo: in Italia non c’è nulla del genere, ed è davvero difficile rendere l’idea del piatto (che è diffusissimo nella cucina casalinga magiara!).



  • Ci sono altri generi letterari in cui ti piacerebbe cimentarti come traduttrice?


Ho tradotto letteratura, ho tradotto poesia, ho tradotto testi per l’infanzia, ho tradotto testi storici... a dire il vero, mi piace l’atto di tradurre di per sé. Ogni nuovo testo è una sfida, e come tale cerco di affrontarlo con entusiasmo.



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